Gli attributi vegetali di Demetra in Sicilia…”dove tutto nasce inseminato e inarato”


Là dove il vento piega le spighe di grano e il papavero china il capo sotto il peso del sogno, Demetra cammina ancora. Non è una dea qualunque: è la signora del tempo ciclico, la tessitrice delle stagioni, madre del pane. Non si mostra, si svela; non arriva, si rivela nel ciclo. Il suo passo si legge nel solco, nella mietitura, nel silenzio delle grotte e nel sonno dei semi. Nei fuochi che rischiarano i riti delle donne, la sua presenza si fa viva.

Atene la celebrò nei misteri di Eleusi, ma fu in Sicilia che Demetra trovò una seconda patria – più oscura, più fertile, più antica nel respiro. Qui, secondo Diodoro Siculo, donò agli uomini il grano. Qui, con Kore, insegnò non solo a coltivare, ma a vivere secondo giustizia. Si fece legislatrice, madre della misura, signora dei tempi e delle leggi. La sua parola non era pronunciata, ma arata: un gesto che divide e unisce, come il pane quando viene spezzato.

Nella visione dei Dinomenidi – i tiranni di Siracusa – fu lei a garantire l’ordine del mondo e delle città. Non più soltanto dea del raccolto, ma patrona del vivere civile, custode di un’etica fondata sulla terra. La sua immagine percorreva le monete, adornata di spighe e papaveri, il volto calmo e severo di chi regge il ciclo e la legge. Così nacque, nella Sicilia arcaica e classica, una Demetra profondamente politica e ctonia: regina dell’abbondanza e delle profondità, dell’equilibrio e dell’oblio.

Il suo volto antico affiora nelle pietre di Selinunte, nella metopa delle tre figure femminili – mani strette attorno a fiori o spighe. Si è discusso se siano fiaccole o fusi, ma il gesto è chiaro: sono mani che offrono o custodiscono, che portano il dono della semina o il mistero della discesa. Forse sono Demetra, Kore ed Ecate; forse le Horai, o dee della vegetazione. L’indizio più eloquente è nella verticalità dell’attributo: una spiga stilizzata, trattenuta come simbolo del frutto del campo e della mente.

Ma la spiga da sola non basta. Come un’ombra luminosa, Demetra è accompagnata dal papavero. La sua capsula rigonfia, pronta a esplodere di semi, il suo stelo sottile, il rosso fragile del fiore. Nelle statuette votive – le “offerenti con porcellino” – il papavero è spesso tenuto contro il petto, associato a ciò che si sacrifica. A Gela e nei santuari di Bitalemi, il porcellino e il papavero formano una coppia iconica: sangue e oblio, vita e soglia. Il papavero somniferum, quello “lattiginoso”, era noto per il suo potere analgesico e i semi nutritivi. Ma soprattutto, in quel bulbo chiuso stava la promessa della fertilità sotterranea, del sonno che prepara la rinascita.

Nei rilievi ceramici e sulle monete, il papavero appare spesso tra le spighe, sul capo della dea, come fiore e sigillo. Le foglie sfrangiate che accompagnano i suoi ritratti – spesso interpretate come querce – potrebbero invece essere foglie di papavero, frammenti di un codice simbolico che lega Demetra non solo alla vita della pianta, ma alla sua soglia interiore: il confine tra crescita e dissoluzione, tra veglia e sogno, tra civiltà e natura selvaggia.

Il frumento e l’orzo – Triticum e Hordeum – non sono soltanto colture, ma forme del tempo stesso. L’orzo, spesso disprezzato in epoche più tarde come cibo rustico, fu in realtà il cereale dominante nell’economia arcaica, simbolo di benessere e stabilità. Frumento e orzo crescevano insieme, si offrivano insieme, si confondevano nelle rappresentazioni. Anche il linguaggio antico preferiva l’ambiguità: “spiga” poteva indicare molte cose, ed è proprio questa vaghezza a conferirle potere. Come in ogni simbolo, ciò che è generico diventa universale.

Demetra insegna il gesto del pane. Non solo il dono del grano, ma il modo di dividerlo: l’ἄρτος, il pane tondo e compatto, è un cibo che sancisce l’uguaglianza, destinato a tutti senza distinzione. Nutrimento e misura. Mangiare pane significa partecipare all’ordine civile, vivere secondo i θεσμοί, le leggi invisibili che regolano la polis. Così il pane diventa rito sociale e chi non lo mangia si pone fuori dalla sfera dell’umano.

Il papavero, al contrario, è compagnia e sfida. Non sazia, ma incanta. Non nutre, ma dischiude. È il companatico del pane, ma anche il suo opposto: se il cereale fonda la città, il papavero ne svela il margine. Come Kore, che scende negli Inferi per poi tornare, il papavero unisce stagioni e mondi.

Quando Demetra è raffigurata con entrambi – spiga e papavero – non si tratta di una semplice somma di attributi, ma di una visione della vita: coltivare e dimenticare, legare e lasciar andare.

Nel cuore della Sicilia, tra Gela e Selinunte, tra Morgantina e Catania, il culto non si spegne, ma si sedimenta. Nei santuari fuori dalle mura, nei votivi gettati a migliaia, nella fiaccola accesa, nei porcellini sacrificati, nelle statuette sedute in trono, la madre della legge e dei raccolti continua a parlare. Non a voce, ma attraverso i simboli.

Spiga e papavero: pane e sogno, ordine e oblio. In Sicilia, Demetra non è solo dea dell’agricoltura, ma la grammatica stessa della vita che si ripete, si rinnova e si trasforma. Ogni raccolto, ogni campo mietuto, ogni pane spezzato è un passo nel suo eterno cammino, un segreto antico che ancora oggi parla nel silenzio dei campi.

(una suggestione evocata dall’artico di Alessandro Pace: gli attributi vegetali di Demetra in Sicilia…“dove tutto nasce inseminato e inarato”)